Oggi parliamo del diritto di recesso ad nutum nelle S.p.a.
Sintetizziamo i passaggi contenuti nella recente Ordinanza n. 2629 del 29 gennaio 2024 resa dalla 1^ Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione.
Gli ermellini si pronunciano positivamente sulla dibattuta questione della legittimità del diritto di recesso ad nutum. In particolare, richiamano dapprima principi ante riforma (2003) che caratterizzavano il diritto societario e connotavano l’art. 2437 del c.c. Il 1° legato alla tassatività delle cause di recesso, il 2° volto a dare maggiore interesse all’integrità del patrimonio sociale ed alla prosecuzione dell’impresa, con conseguente liquidazione “punitiva” per il socio uscente. Gli stessi si soffermano poi sui nuovi principi post riforma.
Dopo la riforma del 2003, c’ è stato un vero e proprio cambiamento di rotta superandosi i vecchi principi che un tempo connotavano l’art.2437 c.c.. Il conseguente obiettivo è stato favorire la competitività tra le imprese ma anche quello di tutelare gli interessi dei soci investitori assicurando loro di non restare per troppo tempo legati al rapporto sociale.
Partendo dal termine “exit” preso in prestito dal linguaggio economico, il recesso e l’alienazione delle partecipazioni sociali, pur essendo istituti diversi, vengono ugualmente accumunati perché presentano alcune similitudini sotto il profilo economico. L’intento della riforma è stato favorire la competitività delle società, semplificando il loro accesso al mercato dei capitali. Uno dei mezzi per rendere più agevole tale obiettivo è senz’altro quello di ampliare le ipotesi del recesso dei soci investitori. D’altronde la propensione all’investimento è maggiore quando l’investitore è certo della possibilità di poter procedere con il disinvestimento attraverso l’alienazione delle sue partecipazioni societarie.
A tal fine, il legislatore con la riforma del 2003 ha:
- sia ampliato le ipotesi di recesso;
- sia assicurato al socio (al momento del suo ingresso in società) che le possibilità di exit non vengano ridotte durante la vita della società stessa.
La rilevante novità portata dalla suddetta riforma è consistita dunque nel non voler più ancorare le cause di recesso alle sole ipotesi in cui il socio sia in disaccordo con talune deliberazioni adottate dalla maggioranza dei soci. In sintesi, le esigenze del socio interessato alla prosecuzione della gestione della società e le esigenze del socio investitore vengono messe sullo stesso piano.
L’ordinanza n. 2629 della Corte di Cassazione
Nella questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte al creditore non viene richiesta alcuna preventiva valutazione circa l’esistenza del diritto di recesso, in quanto ancorata alla “vita del socio e/o ad un progetto imprenditoriale”. Dunque è possibile andare al di là di tali ragionamenti, estranei alla specifica questione, per ribadire quanto segue. Se da un lato l’intento è quello di favorire l’accesso delle SPA ai finanziamenti, dall’altro il legislatore deve assicurare ai potenziali investitori la possibilità di uscire con altrettanta facilità senza temere soprese.
Richiamando la fattispecie dell’art. 2437 c.c., il legislatore (accanto alle ipotesi tipiche di attribuzione della facoltà del diritto di recesso) si è dunque assicurato di slegare il socio da vincoli. E lo ha fatto attraverso l’autonomia negoziale, prevedendo ad esempio la possibilità per i soci di inserire il diritto di recesso nelle società costituite a tempo indeterminato.
Con la riforma del 2003, a fronte di una maggiore autonomia statutaria delle società ed all’ampliamento delle ipotesi del diritto di recesso, c’è anche una maggiore tutela risarcitoria per le minoranze.
Considerazioni finali
La Suprema Corte nel richiamare la volontà espressa dal Legislatore sottolinea poi come questi abbia al tempo stesso espressamente riconosciuto all’autonomia statutaria la possibilità di inserire ulteriori ipotesi di recesso. Cioè non solo ipotesi in cui il socio sia in disaccordo con il programma imprenditoriale e/o con le decisioni adottate in seno a talune delibere assembleari. Ma anche ipotesi legate alla semplice volontà del socio di non restare per troppo tempo legato a quella società.
Di qui l’ulteriore differenza tra il recesso per giusta causa ed il recesso ad nutum. Quest’ultimo, infatti, non coinvolge necessariamente il rapporto fiduciario, ma più semplicemente una diversa valutazione delle scelte imprenditoriali.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato poi che il recesso ad nutum del socio era anche espressamente previsto nella clausola statutaria. In questa, più precisamente, si era tenuto conto sia dell’oggetto sociale sia della composizione della compagine societaria. Da quest’ultima emergevano, da un lato, una partecipazione di assoluta maggioranza, dall’altro, partecipazioni di minima entità.
Inoltre, ha altresì rilevato che nello statuto l’obiettivo della società era quello di procurare dei vantaggi diretti agli stessi soci, prevedendo per questi ultimi la possibilità di recedere dalla società qualora tale vantaggio non fosse stato più tale.
Anche per questi motivi, la Suprema Corte ha ritenuto la declaratoria di nullità della clausola statutaria riferita al diritto di recesso ad nutum particolarmente lesiva per il socio. Dal momento che questi, sin dal suo ingresso nella società, aveva ritenuto di poterne uscire agevolmente.
Per maggiori approfondimenti, si rinvia al testo integrale dell’Ordinanza che potrete leggere cliccando sul link sottostante. ⬇️
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